1° maggio del Gargano

Dall’antica civiltà contadina del Gargano: come si celebbrava il 1° Maggio negli Anni Cinquanta. Il dettagliato racconto di Antonio Monte da Milano


Invito tutti a leggere l’articolo, che qui di seguito riporto, scritto dal mio amico Antonio Monte, trasferitosi al Nord per lavoro, e che racconta come si svolgeva e veniva vissuta la festa del 1° Maggio negli anni 50 nel nostro Gargano; lo giudico realistico, storicamente appropriato e sentimentale.


In quegli anni la festa dei lavoratori, divisa per colori ed inni, nel Gargano come in ogni parte d’Italia, raccontava l’unica storia della speranza e della voglia di riscatto da una condizione economica e sociale molto difficile.


Questa festa era così viva e sentita che anche i criminali la scelsero però, a Portella della Ginestra, quale inno alla pazzia e momento di tragedia e di morte. Oggi ricordiamo quegli uomini, assieme a tutti coloro che sono caduti sul posto di lavoro, e a quanti emigrarono lontano dai sorrisi e dagli affetti della loro terra per consentire a noi oggi di poterla vivere con dignità e prenderla in carico con la responsabilità di chi dovrà restituirla ai propri figli. Oggi, ricordiamo le battaglie sociali e civili di emancipazione delle nostre terre condotte da uomini di valore quali Giuseppe Di Vittorio; in questo giorno li ricordiamo tutti e li ringraziamo uno ad uno.


                                                            Buon 1° Maggio a tutti.    


                                                            Stefano Pecorella


 


 


Gli effetti devastanti dell’ultima guerra mondiale hanno messo a dura prova la maggior parte della popolazione Garganica. Le famiglie provate  da lutti e da malattie sono diventate ancor più povere e la classe operaia ancora più segnata dalla miseria. Molti genitori sono stati costretti  di affidare i propri figlioletti a gestori artigianali ed agricoli per garantire loro un pezzo di pane. I ragazzi venivano messi a disposizione delle maestranze per l’intera giornata e non venivano neanche iscritti alla scuola dell’obbligo.


Gli scapaccioni erano consentiti dai superiori per qualche errore banale e per placare i cattivi umori dei superiori. Apprendere un mestiere era un obbligo. L’apprendistato, per coloro che intraprendevano l’arte della campagna, consisteva nel pascolare le bestie ricevendo come retribuzione: il pane quotidiano, un litro di olio e un chilo di sale al mese, una forma di cacio a Natale ( la grandezza a discrezione del  padrone)  e una piccola paghetta. I ragazzi erano già maturi e consapevoli della situazione economica familiare tanto da risparmiare l’olio e il sale e riportare la quantità residua alle proprie case. 


I genitori pattuivano con i datori di lavoro: il salario e due giorni di riposo bimensile e la garanzia della festività del 1° Maggio.  I giovani lavoratori, oltre alla fatica della giornata lavorativa,  dovevano sottostare agli ordini degli anziani garzoni:  prelevare l’acqua dai pozzi e dalle cisterne, raccogliere la legna per il fuoco serale,  lavare la pentola e il piatto (unico per tutti), attendere che gli anziani iniziassero l’assaggio dei pasti trattenendo  il proprio languore.


Il rispetto e l’obbedienza verso l’anziano e il padrone erano doveri indiscutibili. Il Segno della Croce era l’unica preghiera che conoscevano per ringraziare il Signore dopo aver portato la mandria nella stalla ogniqualvolta le intemperie incombevano in aperta campagna e le bestie si spaventavano per il vento, per i tuoni e per i fulmini e non erano più controllabili  e prendevano direzioni diverse.  


La festa del 1° Maggio  era come onorare le prestazioni di tutti i lavoratori, era il coraggio represso che si sprigionava attraverso lo sfogo collettivo,  era la rivalsa di tutte le ingiustizie accumulate durante l’anno. I preparativi iniziavano nei giorni precedenti alla festa, i ragazzi e le donne si dileguavano nei campi per raccogliere fiori rossi e bianchi perché i loro petali venivano utilizzati dai manifestanti.


La mattina del primo Maggio la popolazione  si radunava nella piazza davanti alla camera del lavoro per formare il corteo. I più piccoli in prima fila,  vestiti di camice rosse e in mano le bandierine con lo stemma della falce e del martello, poi le donne ornate con il capo di ghirlande rosse; alcune di esse sostenevano grossi  cesti pieni  di petali di rose e papaveri che lanciavano per terra al passaggio di qualche  rappresentante sindacale e di partito.


Gli esponenti di spicco portavano all’occhiello il garofano rosso e con il megafono pronunciavano frasi di rivendicazioni oppure davano l’inizio all’inno del partito: “Avanti popolo alla riscossa, bandiera rossa, trionferà”  e tutte le bandiere sventolavano contemporaneamente.


Gli uomini al seguito con i propri mezzi di lavoro: biciclette ornate di fiori rossi; asini e muli ricoperti di mantelli rossi, tutti allineati al seguito del corteo e appena la banda dava inizio all’inno del “ 1° Maggio o  di bandiera rossa”,  gli animali ragliavano fortemente dallo spavento.


Il corteo, in prossimità dell’abitazione di qualche benestante aumentava la tonalità degli inni provocatori diventando sempre più assordanti; questi i versi: “ mangiatillo e sugatillo il limone , lo sappiamo che non ti piace ma oggi devi farti capace che il limone devi mangiare,” era l’unico giorno in cui i padroni sostituivano i loro garzoni per i fabbisogni della campagna.


L’altro corteo più contenuto, quello della democrazia cristiana, partiva dalla parte opposta  ed era composto: da impiegati, professionisti e praticanti religiosi con le bandiere bianche marchiate dallo stemma dello scudo crociato, meno affollato dell’altro ma più ricco di mezzi; al seguito i primi trattori che trainavano rimorchi con sopra le donne che lanciavano i petali di rose bianche e di margherite; i cavalli avevano le criniere intrecciate, ricoperti con mantelli bianchi, preparati come a partecipare a vecchi rodei medioevali, le bestie scalpitavano storditi dal canto di “ oh bianco fiore simbolo d’amore” oppure dagli applausi che riceveva l’esponente del partito per ogni battuta pronunciata al megafono.


I due cortei si svolgevano nel pieno rispetto reciproco, per ordine e per compostezza. I cortei si scioglievano dopo i comizi tenuti dai loro rappresentanti politici e sindacali che fissavano l’appuntamento nel pomeriggio per la scampagnata in due località diverse. 


I luoghi prefissati, in aperta campagna, erano paragonabili a l’invasione di formiche colorate che prendevano d’assalto: frittate, formaggi, lampascioni al forno, salsicce, taralli e ciambelle, tutti prodotti fatti in casa, mentre il vinello aspro nostrano, posto nei fiaschi, veniva sorseggiato e il recipiente passava di  mano in mano; quel liquido  alimentava ancor di più lo sfogo e ne  liberava battute, risate e gesti  provocatori, nei confronti delle maestranze e dei padroni.


Per l’occasione si organizzavano diverse attività agonistiche, dove i protagonisti erano gli stessi manifestanti che si misuravano: nel tiro alla fune, nella corsa nei sacchi e si allestiva  la cuccagna composta da un palo con appesi  i prodotti alimentari legati dallo stendardo rosso per il partito comunista e dallo stendardo bianco per il partito della democrazia cristiana.


I partecipanti che toccavano lo stendardo per prima portavano a casa i prodotti.


I vincitori erano sempre i ragazzi poveri, bramosi di impossessarsi degli alimenti riscattando la fame addomesticata.


La corsa degli asini era lo spettacolo più divertente, gli animali non sempre ubbidivano al proprio fantino, si fermavano di colpo disarcionandolo oppure prendevano direzioni diverse ragliando fortemente.


 

Ultimo aggiornamento

29 Aprile 2013, 09:51